“Elva e la sua storia”
del turista
Gennaro Russo
Stesura finale: 10 marzo 2007
Prefazione
Domenica 14 maggio 2006 è stato inaugurato nel Comune di Elva, nella borgata capoluogo Serre, presso la casa della Meridiana, il “Museo di pels” ovvero il “Museo dei capelli” per ricordare, il più singolare mestiere che montanaro abbia inventato per integrare i magri proventi della terra: raccogliere i “caviè”i capelli.
Questo lavoro fatto dagli uomini di Elva per circa un secolo e mezzo, fino all’ultimo dopoguerra, aveva inizio tutti gli anni alla conclusione della stagione agricola.
Erano uomini coraggiosi che giravano, di paese in paese, di casolare in casolare sopportando freddo, fatiche e disagi alla ricerca dei capelli, materia prima indispensabile, a quel tempo, per fabbricare le parrucche.
Il Museo ha lo scopo di “salvare dall’oblio una gloriosa tradizione ed una porzione fondamentale di storia e di patrimonio culturale locale”.
Nelle sale espositive del piano terra ci sono gli attrezzi del mestiere, esempi di capelli lavorati, documenti e fotografie d’epoca. Nella sala del primo piano un filmato informativo sull’argomento.
Dopo aver visitato il museo la voglia di documentarmi, nata da più di un lustro, sulla storia di Elva è aumentata. Dai libri che ho letto ho preso appunti sulle notizie storiche che hanno maggiormente suscitato il mio interesse (vedere la bibliografia da me consultata).
Il mio scopo era di condensare in poche pagine quelle notizie che un visitatore del Museo vorrebbe trovare alla fine della visita. Spero di esserci riuscito, tanto che, ora, sono in grado di rispondere a queste domande sulla storia di Elva:
Dove sorge Elva.
Le origini del nome Elva.
La chiesa parrocchiale e come fu scelto il luogo dove costruirla.
Gli affreschi di Hans Clemer: il “Maestro di Elva”.
La popolazione.
La lingua.
Gli abitanti.
I cognomi.
Vertenze con i comuni vicini.
Il lavoro.
I “caviè” d’Elva.
Le veglie nelle stalle.
Il fenomeno dell’immigrazione e dello spopolamento.
L’Architettura.
Le Borgate.
La manutenzione delle strade: “le dezene”.
L’incredibile storia della “Strada del Vallone”
Gli appunti potrebbero essere distribuiti ai visitatori del “Museo dei capelli”. Sono certo che in questo modo verrebbe ancor di più valorizzato il Museo e nello stesso tempo la bella storia di Elva dove quella dei “cavie” è solo una parte, se pure importante.
È evidente che quanto ho scritto è tratto dai libri che ho letto, avrò sicuramente commesso degli errori di interpretazione, di date, e di fatti e di questo mi scuso sin d’ora con il lettore.
Gennaro Russo, turista di Elva.
e-mail: gerusso@hotmail.com
“Elva e la sua storia”
“Isolamento, inaccessibilità, luogo dove poter sopravvivere: queste le ragioni della leggendaria origine di Elva”. E’ la frase che maggiormente mi ha colpito tra i tutti i libri che ho letto ed è stata scritta da Alberto Bersani in “Elva il profumo di una comunità”.
Elva si trova nelle Alpi Cozie in Val Maira, situato a 1637 s/m, si estende su 2685 ettari di cui 900 di campi, 1500 di prati e 169 di pascoli, è bagnato dal torrente Elva, il vallone è protetto, da una parte, dalla maestosa giogaia del Pelvo d’Elva (3064 mt) e dall’altra dal Chersogno (3026 mt), dista da Cuneo 51 km.
Credo che non sia facile trovare un altro angolo di mondo come Elva, paese alpino dove la popolazione è sparsa in 30 borgate.
Per secoli il paese è rimasto chiuso fra le montagne impervie ed appartate della già difficile e segreta Val Maira con una popolazione abbastanza stabile, salvo l’emigrazione stagionale, l’unico collegamento con il resto del mondo, è stata la mulattiera per andare a Stroppo scollinando i Colli San Giovanni e Bettone situati rispettivamente a 1831 e 1872 metri di quota, con un percorso lungo, faticoso e non privo di pericoli.
Caso molto raro che gli abitanti di un paese alpino, situato a mt 1637 s/m, per raggiungere la valle debbano prima percorrere in salita due colli.
Altre strade, realizzate però soltanto dopo il secondo conflitto mondiale, hanno meglio collegato il paese alle due Valli: Maira e Varaita.
Questo isolamento secolare ha sempre costituito, il problema essenziale di Elva, ma per un altro verso ha impedito a questo paese meraviglioso di perdere la sua più autentica fisionomia etnica e geografica.
L’altimetria di tutto il paese parte dai 1160 metri e raggiunge il Monte Pelvo di 3064 metri,
i centri abitati si collocano tra i 1437 e i 1977 m. s.l.m., confina con i comuni di Stroppo, Sampeyre, Casteldelfino, Bellino e San Michele di Prazzo.
La Borgata principale di Elva si chiama Serre ed è situata a 1637 s/m dove c’è la Parrocchiale e il Municipio.
Serre si trova al centro del paesaggio, sopra uno sperone roccioso che si sporge sulla “Coumbo” cioè la “Comba o Vallone”, quasi a controllo di tutte le vie di accesso.
Le borgate sono: 1 Serre, 2 Martini, 3 Baudini, 4 Grangette, 5 Villar, 6 Reynaud, 7 Clari, 8 Rossenchie, 9 Dao, 10 Grange Garneri, 11 Grange Laurenti, 12 Grange Viani, 13 Castes, 14 Baletti, 15 Chiosso Superiore, 16 Chiosso Sottano, 17 Chiosso Beltrandi, 18 Molini Giordana, 19 Molini Abelli, 20 Molini Allioni, 21 Lischia, 22 Brione, 23 Maurelli, 24 Gòria Superiore, 25 Gòria di Mezzo, 26 Gòria Ugo, 27 Gòria Abelli, 28 Isaia, 29 Mattalia, 30 Comba.
Ettore Dao nel suo bel libro “Elva un paese che era” ci segnala che nei vari documenti della Val Maira, Elva compare per la prima volta il 27 luglio del 1254 e il 20 febbraio 1264.
Nei secoli tormentati eppur felici del Marchesato di Saluzzo, l’Alta Val Maira ebbe un’orgogliosa autonomia scolpita nelle parole della Franchisa Magna: atto marchionale del 21 novembre 1475 che riconosce agli elvesi, libertà, privilegi, franchigie, buone consuetudini e statuti. Gli elvesi definiti “aborrentes servitutem…et amantes libertatem instinctu naturali”, tradotto: aborriscono la schiavitù ….e amano la libertà per istinto naturale.
Da dove deriva il nome del paese Elva? Ci sono quattro ipotesi.
Prima ipotesi: dal pino cembro, chiamato Eivu o Elvu o Elvo, che, anticamente, copriva buona parte del territorio di Elva; era una vera foresta, si estendeva ininterrotta dalla Val Maira fino alle pendici del Monviso e il poeta Virgilio la ricorda nelle “Georgiche”.
Durante la guerra di successione d’Austria del 1744 gli eserciti Piemontesi e Franco-Ispani distrussero buona parte dei pini cembri di Elva per le opere di difesa, principalmente per costruire palizzate.
La distruzione continuò alla fine del ‘700, con l’incendio, ad opera degli abitanti delle borgate Grange, per disperdere i lupi che a branchi s’annidavano tra gli alberi sulle pendici di Costa Pallonetti sotto il Pelvo d’Elva
I pini rimasti, tra le Valli Maira e Varaita, sono ancora serviti durante la grande guerra ’15-’18 per la fabbricazione degli aeroplani, in quanto il legno del pino cembro, oltre ad essere leggerissimo, ha anche elevata resistenza meccanica.
Seconda ipotesi: dal torrente affluente del Cervo detto Elvo (nome etnico dei galli Helvi).
Terza ipotesi: origine storica dalle più illustri. Il suo è un nome antichissimo della gens romana Ebuzia. Tito Livio ne parla; nel suo quarto libro nomina Hebutis Helva. Cesare Augusto spinse le sue legioni anche nell’anfiteatro dove si erano rifugiati i Galli e dove sorgerà Elva. La battaglia fu cruenta e sanguinosa con lo sterminio di tutti i Galli. Elvio Cinna pensò di costruire a borgo questo luogo, che per la sua fiorente vegetazione si prestava alle culture più varie.
Questa terza ipotesi predomina sulle altre, fu così che Elva prese il nome della illustre famiglia Helvia di Roma e a ricordo della vittoria sui Galli.
Un frammento di lapide Romana incastonato nella facciata della Parrocchiale del 1200 comprova la storicità del nome Elva.
I primi colonizzatori potrebbero essere stati Legionari Romani che avevano ultimato il servizio militare che ricordiamo durava da 16 a 24 anni.
E’, infatti, rimasta diffusa la persuasione che all’epoca della campagna militare di Augusto qualche soldato o “liberto” sia rimasto in paese.
La località Elva venne quindi considerata “soldo di guerra” e assegnata ad un gruppo di Legionari Romani, uno di questi Legionari si chiamava Davus.
L’imperatore Elvio Pertinace nel 191 rafforzerà la comunità di Elva con Legionari Iberici.
Dopo il 1100 la lingua latina a poco a poco diventa lingua italica. Il cognome Davus si trasforma in Dau e Davo finché nel 1380 su atti della comunità il nome è scritto come oggi: Dao.
Quarta ipotesi: è forse una fantasiosa leggenda che accredita le origini del paese, all’opera di ”quattro briganti che avevano già vagato per tutte le terre e un giorno, uno dietro l’altro, sono sbucati sulle Serre” e sono nati i quattro quartieri del paese, “l’escartoun” cioè il gruppo di borgate: Grange-Quiòs, Traverses, Serres-Martin e Gòria.
Questa quarta ipotesi si ricollega alla prima, in quanto, i primi abitanti di Elva, che probabilmente erano dei perseguitati, trovarono, un rifugio sicuro, nella grande foresta di pini cembri e dal luogo, racchiuso da una cerchia di alti colli, dove l’unico sbocco per andare o salire dalla valle era pressoché impraticabile.
Il secolo X (il 900) doveva vedere abbattersi su questi luoghi la furia distruttrice dei Saraceni.
Dalla metà del 1500 e per circa un secolo, un grave problema politico religioso agita la Val Maira: la diffusione dell’eresia ugonotta e calvinista arriva anche ad Elva nella frazione Grange Viani, la più alta borgata 1820 metri di altitudine.
In questo luogo, durante le guerre di religione, dal Delfinato, arrivarono appunto gli Ugonotti che a ricordo del loro passaggio fusero e lasciarono nella Cappella di San Chiaffredo e San Claudio una campanella con la scritta. “Les abitans de la religion reformée de la Chalp de Sancte agite mont faiet faire a Montpelliè 1644” documento che attesta che in questa frazione di Elva, per un decennio, arrivò l’eresia protestante.
Inizia l’azione violenta contro gli eretici. Essi sono posti nella condizione di abiurare davanti ai magistrati, oppure di prendere la via dell’esilio.
La campanella della Cappella resta a perpetua testimonianza di questa incertezza religiosa, perché fu fusa a Montepellier in Francia dagli Ugonotti e poi dopo la cacciata degli stessi, usata dai cattolici.
Ad Elva nel 1600 c’erano miniere d’oro. A Bellino dietro il Pelvo c’erano miniere di ferro.
Nel 1601 le truppe francesi ritornarono in Francia e la Val Maira passò definitivamente a Carlo Emanuele I di Casa Savoia (una curiosità: nel referendum del 2 giugno 1946 la monarchia prevalse per 235 voti contro i 70 della repubblica).
Il 15 settembre 1610 Carlo Emanuele I concedeva in feudo agli Alinei il comune di Elva: la comunità non trasse vantaggi né il dal feudatario né dalla corte ducale.
Tra il 1629 e il 1633 la peste arrivò anche nei paesi come Elva dove l’aria era certamente migliore dei paesi di pianura, il morbo causò la morte di molta gente.
Nel 1743-1744, nella fase più acuta delle guerre di successione d’Austria fra Spagna, Francia ed Austria, Elva si trovò al centro di sanguinose contese.
Per fronteggiare l’invasione del nemico Carlo Emanuele III fece costruite opere di difesa che interessarono principalmente la Val Varaita in quanto più accessibile e aperta agli invasori rispetto alla Val Maira. Ma i colli Elvesi furono comunque interessati con costruzioni di ridotte al colle della Bicocca verso Bellino e di un’opera di difesa arretrata al colle di Elva.
Un’altra opera, non di difesa ma ugualmente di grande importanza militare, fu la famosa “strada dei cannoni” la strada partiva da Busca e seguendo il contrafforte fra la Val Varaita a Val Maira, raggiungeva il colle di Elva (Sampeyre); di qui un ramo scendeva a Ponte Catena (presso Stroppo) per risalire al colle del Mulo (Marmora) e quindi scendeva alle barricate di Valle Stura, l’altro ramo raggiungeva la zona della Bicocca (monte Pelvo).
Per mezzo di questa strada si poteva, da Saluzzo, rifornire tutta la difesa avanzata senza passare da Cuneo.
Nonostante tutte queste precauzioni i Gallo-Ispani arrivarono ed occuparono Elva, come attestano le mappe dell’epoca, e la fecero da padroni.
Gli Elvesi dovettero fornire vettovaglie (sei vitelli, trentasei mucche, foraggio e tanta legna che pregiudicò in modo irreversibile il patrimonio boschivo) ai battaglioni invasori, se avessero disubbidito il paese sarebbe stato incendiato.
Il primo documento riguardante la nuova Parrocchiale Elvese risale al 1351.
Dice la leggenda che la scelta del luogo fu lasciata al caso: un asino, carico di un concio ricavato dalle rovine della primitiva chiesa, libero di dirigersi a suo piacimento, si fermò a riposare sul prato delle Serre, presso il sepolcro di Daus, che perciò fu destinato ad ospitare la nuova chiesa.
In realtà la scelta del luogo pare tutt’altro che casuale: prova ne è che la Parrocchiale, e ancor più il suo slanciato campanile, sono visibili da quasi tutta la conca Elvese.
La parrocchiale di Elva non fu la prima, in quanto tale ruolo sarebbe stato svolto dalla cappella di S. Bernardo costruita e tuttora esistente su di un pendio erboso in regione Traverse, borgata Reynaud, in cui si dice che i contadini abbiano rinvenute ossa umane, probabili indizi di antico cimitero.
Probabilmente sullo stesso luogo dell’attuale chiesa c’era precedentemente una piccola cappella a base rettangolare di metri 9 per 14.
Ma quali furono i motivi che spinsero gli Elvesi a costruire una nuova chiesa?
Si può ipotizzare che scendendo verso Stroppo, o di là risalendo verso il Colle San Giovanni, gli Elvesi ammirassero la chiesa romanica di San Pietro di Stroppo, posta sul crinale della valle antistante e per un senso di emulazione, avessero concepito l’idea di costruire ad Elva qualcosa di analogo.
In effetti la nuova chiesa, regge il confronto con la chiesa romanica di San Pietro di Stroppo.
La tipologia di costruzione della Parrocchiale di Elva è romanico-gotica caratteristica della Val Maira.
La chiesa è dedicata a S.Maria Assunta, osservandone la costruzione si nota subito la varietà dei corpi in muratura che si compenetrano a formare una singolare e complessa struttura. Il tetto della chiesa fu restaurato nel 1980.
I muri sono costruiti in pietra, eccetto recenti piccole modifiche; a Nord-Est è affiancata dal cimitero, circondato da un muro di cinta che lo separa dalla piazza antistante il municipio (costruito nel 1765) e dallo spiazzo erboso da attraversare, costeggiando il muro stesso, per giungere al portale d’ingresso che è situato sul lato Nord.
Dal 1643 l’ingresso del cimitero è chiuso con una porta a chiave.
Il portale romanico per entrare nella Parrocchiale, è dotato di decorazioni scultoree sormontate da un affresco quattrocentesco, ed è posto lateralmente rispetto all’altare maggiore, per evidenti regioni pratiche, essendo pericoloso un eventuale ingresso posto a pochi metri dallo strapiombo su cui si affaccia la chiesa, come avrebbe richiesto una chiesa normale.
Murato di fianco, al lato sinistro di detto portale, troviamo un frammento di lapide romana dedicata alla Vittoria, dea favorevole alle armi romane o forse era un cippo confinario? Questo cippo è alto cm. 30 e largo cm. 29 e su di esso appaiono le seguenti scritte: VICTORIAE AUG VIBUS CAESTII.
Entrando nella chiesa notiamo subito l’arco trionfale a sesto acuto, che è databile fine secolo XIV inizio secolo XV, è ricco di sculture allegoriche d’origine medioevale, desunte in gran parte dalla simbologia pagana cristianizzata.
Ne ricordiamo una sulle tante che ornano il portale: sul piedritto sinistro una bellissima raffigurazione dell’inferno: due diavoli intenti a far cuocere due anime nella caldaia, sotto la quale divampano acute lingue di fuoco.
Alcune sculture, sono purtroppo scarsamente leggibili a causa del deterioramento della pietra.
Sulla parete di fondo a destra, si nota il grande crocifisso ligneo ed un locale non utilizzato.
A sinistra, il presbiterio affrescato, la sagrestia, la fonte battesimale del secolo XV, dal peso di 18 quintali, a pianta ottagonale, pregevole per dimensioni e qualità delle sculture, che denota, purtroppo, gli anni, in quanto si presenta in uno stato di grave degrado a causa dell’umidità che risale dal pavimento che ne ha sfaldato la pietra, sgretolando in più punti le forme delle sculture.
Successivamente troviamo il pulpito, l’altare maggiore e il monumentale arcone gotico in pietra alla cui sommità è stilizzata una testa umana; una scultura comune in tutta l’Europa celtica, che si trova nelle chiese medioevali della Val Maira e della Val Varaita.
Sempre sulla sinistra, entrando in chiesa, troviamo murata l’acquasantiera che risale al 1463 ed è opera dei fratelli Zabreri di Pagliero.
Di fronte all’entrata, a sud, troviamo la cappella di San Pancrazio, costruita nel 1762, che modificherà notevolmente la configurazione esterna ed interna della chiesa. Per la costruzione di questa cappella le “dezene” trasporteranno gratuitamente i materiali. Sempre a sud si erge il campanile a pianta quadrata, con finestre bifore al piano della cella campanaria; la struttura lignea della copertura è ancora, in parte, quella originale.
C’è da chiedersi quali siano le ragioni che hanno determinato la nascita in un piccolo paese, di alta montagna, qual è Elva, del più importante ciclo di affreschi del “Maestro d’Elva”.
Il quesito l’ha risolto Rinaldo Comba, come risulta dal libro “Hans Clemer il Maestro di Elva”, del 2002 di Giovanna Galante Garrone ed Elena Ragusa, che riporto fedelmente:
“Nella seconda metà degli anni settanta del sec. XV un “magister Ysaac Brune notarius de Elva” si fece carico insieme ad altre persone di reclutare alcuni esperti, per lavori di manutenzione e ripristino di una vecchia galleria mineraria (forse di ferro) nel territorio di Bellino. La particolare competenza del notaio Isacco (Bruna), nel settore estrattivo, …portò come conseguenza… che proprio da quell’ambito fosse scaturita la fortuna economica della famiglia e ciò potrebbe spiegare il desiderio di lasciare segno imperituro del proprio successo nella località natia, nel cuore della regione, tra le Valli Varaita e Macra”…
Ritornando agli affreschi, ricordo che furono restaurati nel 1985, grazie anche all’impegno costante, nutrito di passione storica, di don Ettore Dao; sono di qualità notevole e rappresentano una pietra miliare per l’arte piemontese: rappresentano l’infanzia di Cristo, la vita di Maria e la crocifissione del Signore.
Quelli della volta risalgono al 1470 e raffigurano gli Evangelisti e i Dottori della Chiesa, e sono opera di un artista piemontese di cultura tardogotica.
Dagli affreschi delle pareti, notiamo che la parete di sinistra del presbiterio contiene parecchie figurazioni delle “Storie” della Madonna e dell’infanzia di Cristo, fra le quali è rimarchevole per dolcezza di tocco quella della fuga in Egitto.
Nella parete destra le pitture sono meglio conservate.
La parete dietro l’altare è occupata dalla Crocifissione, vasto componimento di grande efficacia evocativa. Gli affreschi delle pareti vengono ormai concordemente attribuiti all’opera di Hans Clemer, detto anche il “Maestro di Elva”.
Fu la studiosa Noemi Gabrielli, tra il 1957 e il 1958, ad osservare per prima che la decorazione della volta “come gusto e come esecuzione” è diversa da quella delle pareti. Questi ultimi sono opera dell’artista che da allora in poi sarebbe stato battezzato, proprio da Noemi Gabrielli, il “Maestro d’Elva”, in quanto, come si è detto, proprio Elva è la località in cui si conserva il suo più importante ciclo di affreschi.
Il “Maestro d’Elva” venne per primo identificato in Hans Clemer (o Hense Cherier, come risulta su trascrizioni francesi di documenti) da Pierluigi Gaglia nel 1975/76. Ad analoghe conclusioni giunse Mario Perotti nel 1981, sulla base di una dubbia trascrizione di un documento ritrovato.
Eventuali dubbi sull’identità del Maestro d’Elva non possono però far dimenticare, come evidenziato dal citato Pierluigi Gaglia nell’opera “Elva un paese che era” (di Ettore Dao), edito nel 1985, che “l’identificazione anagrafica rimane forse un aspetto marginale di fronte alla ricostruzione stilistica di una personalità tanto complessa e affascinante”.
Bisognerà così giungere alla seconda metà degli anni ’80, per identificare con ragionevole certezza il “Maestro d’Elva” in Hans Clemer.
La conferma che il “Maestro d’Elva” è proprio Hans Clemer si è avuta dal ritrovamento, nel 1985 e nel 1996 per merito rispettivamente di Marco Piccat e Teresa Grazia Mangione, di alcuni documenti saluzzesi, come evidenziato nel libro “Hans Clemer il Maestro di Elva”.
È interessante sottolineare come l’opera pittorica di Hans Clemer, artista di cui non si conosceva l’identità, viene presa in esame a partire dal 1904, in modo occasionale, e poi, quale corpus omogeneo, dal 1957, ad opera della già citata Noemi Gabrielli, che lo battezzerà, appunto, il “Maestro d’Elva”.
Soltanto però nel 1990 il nome di Hans Clemer comparirà nel “Dizionario della pittura e dei pittori” edito da Einaudi.
Ma chi era Hans Clemer?
Era un fiammingo nativo di Hainaut in Belgio al confine con la Francia (diocesi di Cambrai, in fiammingo Kambrijk). Accolto a corte nella Saluzzo di Ludovico II, nei primi anni novanta del XV secolo (probabile nel 1494), artista itinerante, per le sue capacità aveva lavorato con successo, anche in Provenza.
Ad Hans Clemer gli esperti di storia dell’arte hanno concordemente attribuito i seguenti capolavori:
Il valente pittore,che aveva sposato la saluzzese Caterina Milanesi, morì tra il 1509 e il 1512, una scoperta, questa, di Teresa Mangione, riportata nel libro“Hans Clemer il Maestro di Elva”, “che ha contribuito a sfoltire il fitto catalogo delle opere attribuitegli, cresciuto eccessivamente nel corso degli anni”.
Attraverso i Registri Parrocchiali è possibile seguire attraverso i secoli il fluire continuo di questa comunità immersa nei problemi della sua esistenza quotidiana e in lotta costante per sopravvivere in un ambiente geografico non agevole, facile ed accogliente.
Le caratteristiche psico-somatiche di questa popolazione sono rimaste inalterate nei secoli per effetto di una certa immobilità di questo insediamento umano che conobbe l’emigrazione e non l’immigrazione dei paesi confinanti.
La sua posizione geografica non era invitante ed attraente e già satura di abitanti dislocati su un territorio avaro di risorse naturali, non privo però di bellezze naturali, di buon clima e di estesi pascoli.
Gli abitanti di Elva hanno la configurazione fisica propria della razza celtica, i Romani poi li chiameranno “Galli”: statura alta, arti lunghi rispetto al corpo, viso oblungo, cranio relativamente piccolo, occhi bigi, capelli chiari; anche nelle donne si notava una tendenza mascolinizzante per l’altezza, la forma e la figura.
Si riscontrano pure i lineamenti della razza ligure: faccia larga, cranio tozzo, collo taurino, mandibole sviluppate, arti corti ma muscolatura potente, torso lungo, capelli e occhio scuri; nelle donne forma femminile pronunciata ai fianchi e al seno.
Il necessario connubio fra parentele non provocò effetti così rilevanti e negativi come si potrebbe pensare. Rarissimo è il caso del gozzismo.
Un elemento tipico della comunità Elvese fu la lingua parlata, simile, sotto un certo aspetto ai dialetti della Val Maira e Val Varaita facendo parte e corpo della lingua Provenzale o Occitana, una lingua che fiorì dieci secoli or sono nel sud francese e che fu divulgata attraverso la poesia dei trovatori medioevali; nello stesso tempo, per l’isolamento secolare e i limitati contati con l’esterno, tale parlata si mantenne intatta, né si corruppe.
L’Elvese, fuori del paese, era però in difficoltà ad esprimersi adeguatamente e questo costituì sempre una sofferenza o meglio una pesante umiliazione.
Verso la fine del 1700 si registra un cambiamento notevole: molta gente sa scrivere, più o meno bene, in italiano. Nel 1800 scompare gradualmente l’analfabetismo, dopo la metà del 1800 la scuola è aperta alle fanciulle.
L’emigrazione anche stagionale diventò uno stimolo all’istruzione, da allora ad Elva, forse più che altrove, si attivò quasi un culto religioso dell’alfabeto e delle quattro operazioni aritmetiche, chi andava in giro per il mondo, privo di questa cultura di base, rischiava di muoversi come un cieco.
Come tutti i paesi di montagna, Elva ha avuto una notevole riduzione dei suoi abitanti, a metà ottocento il paese era abitato mediamente da 1200 abitanti con un picco di 1319 nel 1901.
Con i mutamenti sociali ed economici del secolo scorso, Elva, come tutti i paesi di montagna, ha dovuto subire la drastica riduzione dei suoi abitanti.
Nel 1931 si contavano ancora 801 residenti, nel 1951 si riducevano a 551, nel 2003 si è arrivati a 100 e non tutti residenti.
Dati statistici:
Abitanti di Elva, nel 1629 erano 1072, nel 1669 e 1703 erano 800, nel 1746 erano 900, nel 1789 erano 966, nel 1840 erano 1165, nel 1851 erano 1200, nel 1861 erano 1131, nel 1881 erano 1264, nel 1901 erano 1319, nel 1911 erano 1264, nel 1931 erano 801, nel 1936 erano 692, nel 1951 erano 551, nel 1961 erano 396, nel 1966 erano 341, nel 1983 erano 199, nel 2001 114, nel 2003 100 e non tutti residenti come si è detto.
I nati e battezzati hanno seguito le statistiche degli abitanti. Si è passati da una media di nati tra 25 e 45 l’anno nel periodo tra il 1668 e il 1925. Dopo il 1925 fino al 1983 la media scende ad uno o due nati l’anno!
Ci sono stati anni con molte nascite: nel 1764 52 nati, nel 1823 48 nati, negli anni 1848, 1860 e 1874 50 nati, nel 1876 52 nati, nel 1883 50 nati, nel 1886 57 nati.
Il cognome Dao è senza dubbio uno dei più antichi e legato per secoli esclusivamente ad Elva, ed è di origine romana come abbiamo già visto. Anche i Bruna sono di origine remota, così pure Raina che forse provenivano da San Michele di Prazzo, ove esiste la frazione Raina. I Raina inizialmente si stabilirono alle Grange. Altri cognomi fanno pensare a gente israelitica quali Mattalia e Isaia.
Altri cognomi ricorrenti sono: Viviani, Garnero, Garneri, Alamandi, Claro, Pettinotto, Baudino, Lombardo, Galliano, Tarditi, Pasero (forse da Preit) hanno una buona consistenza ad Elva, almeno dopo il 1600.
Dai dati statistici (assommati i nati e battezzati ad Elva tra il 1668 e il 1693 e quelli nati tra il 1885 e 1910), cioè due generazioni di 25 anni, notiamo che emerge su tutti il cognome Dao con 405 nati, lo stesso cognome Dao abbinato ad altri 11 nomi lo troviamo 198 volte. Raina 209, Granero 98, Bruna 94, Mattalia 91, Claro 82, Baudino 79, Lombardo e Isaia 74, Pasero 46 volte.
La vertenza con il Comune di San Michele di Prazzo, è rimasta aperta per più di quattro secoli fino al 1788, per i pascoli verso il Gias Vecchio, per le acque da Fontana Nera e per i confini divisori con San Michele ed altri comuni della Val Varaita.
Il 15 novembre 1788 i confini con San Michele furono definiti con una soluzione assai poco convincente e ancor oggi è abbastanza discutibile: finì per dare alla comunità di S. Michele estesi pascoli alpini sullo stesso versante di Elva.
Ad Elva, per lungo tempo, corse voce che a questo risultato si arrivò per le debolezze e la corruzione di alcuni amministratori locali. Di violenze e di minacce nei loro confronti degli uomini di S. Michele che li avrebbero indotti a transigere se non proprio a tradire gli interessi della comunità di Elva.
La comunità di Elva, era obbligata ad essere per quanto possibile autosufficiente: da qui la presenza di calzolai e sarti, di mugnai e fabbri, di falegnami e muratori.
In primavera, con il disgelo venivano ripresi i lavori agricoli, si ripulivano i campi e i prati, si riparavano le stradine e canaletti, si effettuavano le concimazioni, le prime semine di canapa, lino “frumentol”, segala e “fourmentin” o grano nero, buono per la polenta.
Le donne e i ragazzi erano impegnati a raccogliere fiori e le erbe aromatiche destinate alla distilleria per profumi e liquori.
Con l’ultima decade di giugno incominciava la fienagione, “Per San Jouan lou dai a la man”…per San Giovanni la falce in mano.
Si dava così inizio al periodo più faticoso e stremante per gli Elvesi che doveva essere effettuato in fretta, rubando ore alla notte e al riposo tanto da far dire ai contadini, come è scritto nel libro “Vito gramo” di Giovanni Rajna, “Uéc més d’invern e catré d’infern”, otto mesi d’inverno (da ottobre a maggio) e quattro d’inferno (da giugno a settembre).
Bisognava fare quindi i conti con una stagione lavorativa breve, con le condizioni del tempo sovente instabili e con un condensato di lavori che urgevano tutti insieme, campi, prati, custodia e governo del bestiame, mungitura, confezione dei latticini ecc. Molti lavori per mancanza di tempo venivano fatti addirittura di notte, al chiaro dei lanternini a mano, o durante i giorni di pioggia.
Il duro lavoro, si protraeva sino a settembre, raggiungendo il suo acme dai primi giorni di agosto, quando, oltre al fieno che s’andava a raccogliere sulle “ciarme” alla sommità dei colli, si doveva pure attendere alla mietitura delle biade ed alla risemina dei campi per il raccolto dell’anno seguente (la segala si semina in agosto e si coglie a settembre…dopo tredici mesi).
La fienagione impegnava le energie di tutti. Erano decine gli uomini, addetti al taglio del fieno, uno dietro l’altro, dimenando la falce senza sosta, con il dondolio ritmato delle braccia e delle anche, un lavoro che durava instancabilmente fino a sera. Le uniche soste: la colazione del mattino, il frugale pasto e la raffilatura delle falci. Le falci erano percosse con un martello speciale, su di un apposito arnese, la “martellio” che fungeva da incudine, un tic-tac metallico che risuonava per tutta la montagna.
Dopo la fienagione si passava alla mietitura della segala e degli altri cereali, con il festoso momento della trebbiatura.
L’autunno portava la raccolta delle patate, del fogliame per farne strame nelle stalle. A novembre si accendevano i forni e veniva confezionato quel pane che doveva durare per dodici mesi.
Il pane era generalmente di segala, alla scarsità del raccolto autunnale si suppliva con farina d’orzo. Ne veniva fuori un pane ancora più scuro a grana dura ed è per questo che ad Elva una persona rozza è definita: “E’ fine come un pane d’orzo!” arguta definizione riportata nel libro “La mia valle aveva un’anima” di Piero Raina.
Anche la pastorizia imponeva le sue esigenze. Lungo tutto l’arco della buona stagione era normale impiegare largamente pastorelli e pastorelle dai sette anni in su.
Nelle borgate di Elva abitavano singole famiglie, con stalla, cucina, piccola cantina, fienile, attorno l’orto (non per tutti), campi coltivati, parti concimati e irrigabili, quindi pascoli e boschi.
Nella maggior parte di dette borgate non esistevano botteghe di mercerie e commestibili, talvolta qualcuno vendeva vini.
Non essendoci fiere e mercati, per le provviste si doveva scendere a Stroppo. Non mancavano i commercianti ambulanti, tra cui il gabelliere che vendeva il sale, tabacco, fiammiferi, carta bollata, ecc.
Il gabelliere scambiava le merci e raccoglieva i latticini, le uova, il burro e il formaggio.
La manutenzione della fontana e del forno era affidata agli utenti, lo sgombro e l’attivazione delle strade, in tutte le stagioni, era compito della “dezena”.
L’isolamento dell’intero paese si ripercuoteva sulle stesse borgate, distanti tra loro per ore di cammino e attraverso strade non agevoli.
Elementi di coesione della borgata era la cappella che consentiva la riunione dei frazionisti in caso di necessità.
In base alla legge del 1729 le donne erano escluse dall’eredità. Nel 1772 fra 258 possessori figuravano 19 donne.
L’inverno significava quindi neve e vita nelle stalle dove il riscaldamento era assicurato a costo zero, la legna secca veniva utilizzata soltanto per accendere il fuoco sotto il camino e cuocere le vivande.
Con i bambini a scuola, i vecchi accudivano il bestiame. Le donne filavano la lana, la canapa, lino e confezionavano quanto occorrente alla vita della famiglia. I vecchi si dedicavano alla riparazione degli attrezzi ed al piccolo artigianato.
Con l’autunno gli uomini adulti di Elva lasciavano il paese per andare a fare un mestiere completamente diverso: raccogliere i capelli.
I “caviè d’Elva” sono i protagonisti del più singolare mestiere che montanaro abbia inventato per integrare i magri proventi della terra.
Forse questo mestiere era già sviluppato, nella regione veneta nel periodo dalle campagne Napoleoniche, probabilmente sarà stato portato ad Elva, dopo la pace di Campoformio del 1797, da qualche soldato elvese di ritorno dalla guerra.
Vediamo come e quando gli uomini di Elva iniziavano a raccogliere i capelli: una volta conclusa la stagione dell’agricoltura, in autunno, si diffondevano in Piemonte, Lombardia, Veneto, Savoia, Svizzera, Tirolo e nell’Appennino tosco-emiliano.
Di paese in paese, di casolare in casolare i “pelassiers” di Elva convincevano le donne a vendere le loro chiome o meglio a barattarle con un fazzoletto da testa o con una pezza di stoffa, buona per grembiule o una gonna. Da notare che le chiome delle donne anziane erano le più richieste e considerate più pregiate per il loro colore bianco tendente al giallo.
Il raid era lunghissimo, segnato di freddo, di fatiche, di disagi.
Il raccoglitore dei capelli, generalmente faceva anche l’ambulante di stoffe e vestiario ed abbinando queste due attività, l’una favoriva l’altra. I “caviè” pertanto con una mano vendeva e con l’altra acquistava, praticando così un baratto, dove i quattrini non entravano in ballo, evitando così la presenza dei mariti col borsellino in mano.
Se ne andavano a due a due lungo le pianure e valli, evitando le zone dove la gente campava per molti mesi di castagne perchè i capelli risultavano secchi, sbiaditi e poco resistenti alle lavorazioni.
Nei villaggi si annunciavano ripetendo questo ritornello: “Alè, alè donne dagli occhi belli, bisogna tagliarsi i capelli. E’ sorta una nuova moda ed è ben comoda.”
Nel meridione l’esito fu insoddisfacente sia per la qualità dei capelli più scuri e meno fini ed anche per l’ambiente osteggiante, gli Elvesi venivano appellati “donnaioli del Nord”.
I capelli raccolti, messi in sacchi e portati ad Elva, vi erano qui puliti e classificati per colore, spessore e lunghezza.
Circa cinquecento persone erano addette a questo tipo di lavorazione. Seguiva la spedizione nelle grandi città. Parigi, Londra e New York incluse. Dove diventava materia prima per i grandi fabbricanti di parrucche.
Quest’originalissimo mestiere, potrebbe risalire alla fine del settecento o agli inizi dell’ottocento, è durato circa un secolo e mezzo, fino all’ultimo dopoguerra.
I “caviè” tornavano ad Elva per il 12 maggio, festa patronale di ”San Brancaci” cioè di San Pancrazio, si diceva il Santo non è dei più grandi, ma i “Sant pichot fan de grateis grosses!” i piccoli santi fanno delle grazie grandi.
Da maggio all’autunno gli emigranti riprendevano i panni del contadino o pastore.
Le veglie nelle stalle iniziavano dopo i Santi col diminuire delle ore del giorno e l’arrivo dei primi freddi d’autunno e continuavano fino al 25 marzo festa dell’Annunziata (La Nounzià crepo la veià”). I giovanotti frequentavano le stalle di qualche ragazza. Le sere di moda erano il martedì, il giovedì e il sabato. Il venerdì era per i promessi sposi che preferivano andare a trovare la fidanzata da soli. I giovani giungevano alla meta prefissata, magari dopo ore di marcia nella notte e nella neve. L’entrata nella stalla aveva sempre un suo rituale, con le voci in falsetto dei giovanotti per non farsi subito riconoscere dalle ragazze che aspettavano la visita.
Sicure dell’arrivo dei giovanotti le ragazze avevano addobbato la stalla con un bel paglione e guarnito d’olio il lumino. I giovanotti una volta entrati nella stalla si stendevano sul paglione a fumare e chiacchierare, nell’attesa… che i genitori prendessero sonno. Se il primo sbadiglio si manifestava sul volto della mamma era buon segno, se era lei, la donna, prima di andare a dormire si poteva star certi che l’uomo, il marito non avrebbe tardato nel seguirla a letto. Se invece a dare per primo la buonanotte era lui, il padre, allora era chiaro che la madre aveva la consegna di starsene dritta per ultima, a chiudere la porta della stalla.
Ad Elva le persistenti difficoltà di coltivazione, allevamento e conseguenti produzioni locali hanno obbligato gli abitanti o all’emigrazione o al commercio, raccolta e trattamento dei capelli umani i “cavié” che divenne in breve possibilità per buona parte del paese, nuova vitalità economica.
Il nome del paese passò così ad indicare un mestiere, a legare prodotto e uomo, a simboleggiare un lavoro e perciò concretizzare possibilità di vita della comunità.
L’emigrazione prima e lo spopolamento poi hanno assunto tali dimensioni che lo stesso Elvese, come il turista, girando per le strade di questo paese, avverte di camminare in un habitat di totale silenzio, se non di morte.
La quasi totalità delle case sono chiuse, abbandonate. Per alcuni anni esse avevano conservato il loro rudimentale mobilio, gli attrezzi di lavoro, la cucina, la stalla vuota, il fienile aperto, la legnaia deserta. L’azione deleteria del tempo ha fatto cadere il tetto, i muri si sono spaccati, le volte delle stalle crollate. Le porte delle case rovinate e divelte dai ladri che hanno asportato tutto. In tal modo, la vegetazione ha ripreso i suoi diritti in mezzo alle case, ricoprendole sovente con la vegetazione. Le costruzioni delle borgate sono deperite a vista d’occhio; il vento continua a scoperchiare i tetti, il legname di sostegno si schianta, molte case sono diventate ammasso di pietre.
Già nel 1750 si segnala che moltissime persone espatriavano durante l’inverno, andavano in Piemonte a pettinare la lana, a roncare il terreno; altri che non uscivano in inverno si impegnavano a tessere la tela ad uso del luogo.
Nel censimento del 1821 si parla di 60 emigranti verso la pianura, ad Elva in inverno rimangano per lo più donne, bambini e vecchi.
L’emigrazione fu una necessità, una stalla con due o tre mucche come era la condizione prevalente di Elva, una decina di pecore e un asinello non offrivano ampi margini né di lavoro, né di reddito per la numerosa famiglia: un’azienda di queste modestissime proporzioni poteva benissimo essere tenuta dalla moglie o dai figli, perciò in ottobre, era giocoforza scegliere fra il rinchiudersi nella stalla, in ozio da marmotta, o partire alla ricerca di un lavoro e di una guadagno indispensabile per vivere.
Quando il lavoro, cercato altrove, si presentava poco conveniente si tornava al paese, ma da un ritorno abituale, si passò gradualmente ad un ritorno saltuario, fino al punto di abbandonare il paese natio e stabilirsi definitivamente in altri paesi, soprattutto in Francia, in cui l’espatrio illegale avveniva avventurosamente attraverso passi alpini vicini e non vigilati.
Dopo la seconda guerra mondiale, l’emigrazione si diresse prevalentemente verso il piano, cioè verso l’Italia settentrionale, con preferenza per le province di Cuneo e Torino, “da cui il Pelvo d’Elva si vede in un altro modo”, è la definizione di Ettore Dao nel bel libro “Elva un paese che era”.
La difficoltà di accesso al vallone di Elva ha favorito la permanenza di forme originali di architettura che sono da lungo tempo scomparse.
A causa dello spopolamento, in alcune borgate più isolate, la vita si è fermata prima che le tecnologie moderne avessero alcuno effetto sui tipi di costruzione.
L’elemento base dell’architettura di Elva è la costruzione in pietra a base rettangolare con tetto a travature in legno a debole inclinazione ricoperto da lastre di ardesia.
Le case sono generalmente formate da tre livelli, l’inferiore adibito generalmente a stalla, quello di mezzo ad abitazione, quello superiore a fienile.
L’intonacatura esterna veniva effettuata soltanto per la parte adibita ad abitazione.
Nelle costruzioni più antiche i vari piani sono separati da soffitti in legno, solo in epoca recente, 1700-1800, sono state adottate volte a botte.
Le finestre delle abitazioni sono generalmente molto piccole con ampie strombature, in modo da consentire la maggiore entrata possibile di luce e la minima dispersione di calore.
Ma potrebbe anche darsi che le dimensioni delle stesse fossero piccole per pagare meno imposte in quanto una tassa comunale teneva conto delle dimensioni delle finestre!
Le facciate sono spesso munite di due o tre livelli di balconi che in parte servivano per far essiccare e stoccare il fieno al riparo delle intemperie. Alla fine dell’estate queste facciate erano completamente rivestite di fieno.
I balconi spesso potevano essere di grandi dimensioni ed erano sostenuti da colonne di pietra, come si può ancora notare nelle borgate Molini Allioni e Chiosso.
Ad Elva ci sono 22 colonne rotonde. Fu avanzata l’ipotesi che la loro origine fosse dovuta all’influsso delle grandi costruzioni romane. Nessuna colonna è datata.
Le 22 colonne sono così distribuite: 3 a Mulini Abelli, 2 a Mulini Allioni, 5 a Chiosso di Mezzo, 5 a Chiosso Superiore, 1 a Reynaud, 2 a Villar, 2 a Gòria, 1 a Ugo, 1 a Mattalia.
Alcune borgate risultavano formate dall’accorpamento di più abitazioni. Molti passaggi all’interno di una borgata risultavano coperti da fienili che congiungevano due case, in questo modo, anche con la neve, era assicurato il passaggio.
Alcune abitazioni hanno le pareti formate da tronchi sovrapposti, un tipo di costruzione che troviamo nell’area germanica delle Alpi che è denominata “Blockbau”.
La maggioranza delle borgate di Elva mostra ancora qualche resto medioevale.
Nella cappella di San Bernardo, presso la borgata Reynaud, è murata una scultura raffigurante una figura umana stilizzata. Alla borgata Grange Viani c’è un portale medioevale e una finestra strombata con la sfasatura delle pietre. Alla borgata Brione c’è un portale di pietra medioevale. A Gòria Soprana si trova una finestra in pietra di stile medioevale. A Chiosso Inferiore si trovano spigoli dei muri in larghi blocchi di pietra e una finestra simile a quella della casa medioevale di Viani. Pietre lavorate medioevali le troviamo in una casa di Rossenchie. Alla borgata Mulini Allioni si trovano due portali medioevali.
1 Serre: è la borgata principale, significa terra racchiusa fra le rocce esposte al sole, è al centro del paese con la chiesa parrocchiale e il campanile, situata a 1637 m. s.l.m, nel 1929 aveva 307 abitanti.
La sede della comunità inizialmente è stata la chiesa parrocchiale. Nel 1600 le riunioni comunali si tenevano nel portico della chiesa ove esiste il “banco della ragione”. Qui vi era la sede del Consiglio della comunità, cioè il Municipio.
Il 2 settembre 1928 fu posto sul campanile della parrocchia l’orologio a quattro quadranti, donato da Dao Costanzo residente a Nizza, morto nel 1952.
L’ufficio postale risale al 1837. Nel 1948 arrivò il telefono, la luce elettrica e la radio.
Nella casa denominata della meridiana, dal 14 maggio 2006, ha trovato posto il museo dei capelli.
Da Serre arrivavano e partivano le strade che attraversano il territorio Elvese e portano alle varie borgate e ai paesi confinanti.
Una breve scheda delle borgate di Elva:
2 Martini: è situata a 1726 m. s.l.m dista 700 metri da Serre è situata in zona soleggiata e circondata da ampi distese di campi e prati con abbondanza di acqua per l’irrigazione. Su un comignolo si può notare il disegno di una meridiana circondata da una scritta: “Senza sole non si vede e senza ombra non si…Pasero Antonio”.
I nomi principali delle località circostanti sono: Ciampiasso, Curis, Costa Navarra (nome spagnolo in aggiunta alla famiglia Lombardo, antenato spagnolo?), Bertolino, Fonbot, Barre e Prafuei.
3 Baudini: dista 950 metri da Serre, denota il casato dei Baudini, terreno in prevalenza sassoso, ma vicinanza ad estesi pascoli comunali.
4 Grangette: inizialmente vi si costruirono piccole grange per il soggiorno temporaneo dei pastori.
5 Villar: dista 850 metri da Serre è posta quasi al centro della conca Elvese, circondata da fertili campi e prati.
6 Reynaud, Villar e Clari: costituiscono un tutto omogeneo, chiamate anche Traverse. A Reynaud si trova la cappella dedicata a S. Bernardo di cui si racconta, fosse stata la prima parrocchia di Elva.
7 Clari: ha sempre avuto poco spazio per la cultura agricola, il terreno e per lo più ripido e roccioso.
8 Rossenchie: allevamento del bestiame bovino, ovino e caprino e coltivazione dei campi e prati.
9 Dao: prima del 1842 in questa borgata c’era l’unica osteria con alloggio per forestieri, la seconda sarà a Serre.
10 Grange Garneri: situata a 1810 m. s.l.m., in antico la località era costituita da una serie di grange per pastori, abitata fin dal medioevo. Alcune case di questa borgata hanno pregevoli affreschi del 1929.
11 Grange Laurenti: situata a 1810 m. s.l.m., in questo luogo, durante le guerre di religione, dal Delfinato, arrivarono gli Ugonotti, dunque degli eretici che qui si rifugiarono dai luoghi di origine cercando scampo alla persecuzione. A ricordo del loro passaggio fusero e lasciarono nella cappella di S. Claudio e S. Chiaffredo una campanella.
Sulla questa campanella c’è una leggenda: per una serie di anni ad Elva le messi crescevano abbondanti nei campi, ma negli ultimi giorni dell’estate, quando il raccolto era vicino, si levava una grande tempesta che devastava tutto e piombava i valligiani in miseria. A protezione del raccolto gli abitanti della borgata pensarono di suonare la campanella ogni volta che c’era il pericolo di una tempesta; il risultato è stato che per centinaia d’anni le messi mai più furono devastate.
12 Grange Viani: è la più alta borgata a 1820 metri di altitudine, dista 4450 metri da Serre, quindi esposta ai rigori del freddo e al lungo perdurare dell’inverno.
13 Castes: dista 3150 metri da Serre è seminascosta al resto del paese, circondata da piante secolari. Il suo nome divenne cognome diversificante dei Dao (Dao Castes, Dao Castellana, Dao L’Oste). Predominava l’allevamento degli ovini, caprini, bovini, asini e muli.
14 Baletti: due piccole borgate.
15 Chiosso Superiore: situata a 1670 m. s.l.m, dista 3750 metri da Serre, il nome (anche Chiotto o Closso) indica una zona pianeggiante ove si coltivano campi e prati, situata ai piedi del Chersogno, a metà del vallone che scende ai Molini e sale verso “Gias Vecchio”, lontana dal capoluogo.
16 Chiosso Sottano: dista 3000 metri da Serre, funzionò a lungo un telaio a mano, uscivano lunghe pezze di lana grezza per fare i vestiti chiamate “drap”. Questo manufatto Elvese per centinaia d’anni è servito per fare coperte da letto, mantelle, gonne e calzoni.
Sia le braghe che le sottane si reggevano in piedi da sole anche vuote e si potevano portare in tutte le stagioni, d’altronde “Son que paro dal freid paro dal chaud”, ciò che para dal freddo para dal caldo. I calzoni di “drap”, se bagnati, se ne stavano diritti accanto al letto.
Il “drap” per gli Elvesi era come la casacca di foca per gli eschimesi, come i valenchi per i russi: riparavano magnificamente dai rigori invernali senza bisogno di altri accorgimenti.
Il telaio a mano serviva anche per fabbricare pezze di tela di canapa o lino.
17 Chiosso Beltrandi: situata sotto Chiosso Superiore, intorno alla cappella della B.V. e Sant’Anna.
18 Molini Giordana.
19 Molini Abelli: dista 1800 metri da Serre,
20 Molini Allioni: situata a 1437 m. s.l.m., 243 abitanti nel 1929. I Nomi Abelli e Allioni sono dovuti ai molini (7 nel 1618, 21 nel 1792 e 31 nel 1824). Macinavano le biade o pestavano la canapa e il lino, ci fu anche una fucina. Dopo il 1824 furono preferite le migliore macine di Stroppo. Anche qui troviamo una cappella che è dedicata al culto della Madonna Consolata.
21 Lischia: situata a 1359 m. s.l.m. e dista 3700 metri da Serre, su un versante scosceso. Per la coltivazione dei campi gli abitanti furono costretti in molti casi a terrazzare il terreno.
22 Brione: situata a 1470 m. s.l.m. e dista 3450 metri da Serre. La borgata Lischia e Brione occupano un versante isolato nella conca Elvese, quello più in basso verso la Val Maira quindi molto distante dal resto del paese. Il clima è mite, tanto che un tempo si coltivava anche il grano, cosa rara ad Elva, il sole è quasi costante a volte però incombe la nebbia. Scarsità di acqua, per cui fu realizzata, con grande ingegnosità e quasi tutta in roccia, la lunga bealera che dal torrente Chiosso, nell’opposto vallone, porta acqua fino a Brione, opera che risulta già nelle delibere del 1673. L’isolamento di Lischia e Brione terminò con l’apertura della strada del Vallone, altrimenti era impossibile, in un sol giorno, andare e tornare da Stroppo. A Brione c’è una cappella dedicata a S. Sebastiano e Santa Maria.
23 Maurelli: ben esposta al sole, terreni aspri e scoscesi. Buoni pascoli non lontani dalla borgata.
24 Gòria Superiore.
25 Gòria di Mezzo: situata a1768 m. s.l.m., abitanti 197 nel 1929, anche qui troviamo una cappella dedicata ai Santi Pietro e Paolo.
26 Gòria Ugo: Il cantone Gòria (la parte più vistosa della conca Elvese) dista 4600 metri da Serre, gli abitanti si sono sempre considerati in condizione migliore nei confronti con il resto del paese: il terreno si estende lungo la cresta di un’immensa distesa di prati e di campi pianeggianti, non è aspro, ripido, accidentato come altrove, ma segue un placido declivio, la terra e più facilmente lavorabile, si può usare l’aratro senza che la terra finisca nel campo sottostante. La distanza per Stroppo è inferiore al resto del paese; sarà questo il motivo dell’ostracismo alla nuova strada del Vallone? Gli abitanti di Gòria, per quattro volte votarono contro la sua realizzazione!
Gli abitanti di Gòria, si distinsero particolarmente, durante la campagna militare del 1743-1774, contro i Gallo-Ispani.
27 Goria Abelli.
28 Isaia, situata 1703 m. s.l.m, dista 1250 metri da Serre. Le case sono in forte stato di degrado.
29 Mattalia: situata a 1661 m. s.l.m, dista 800 metri da Serre. Questa borgata, che è formata da nove case, è la più meridionale del gruppo abitato denominato Gòria. Nei cantoni Gòria Ugo, Isaia e Mattalia trovava posto un tempo il ghetto degli ebrei. La distanza dal capoluogo Serre e da Stroppo è inferiore al resto del paese.
30 Comba.
Le distanze tra le borgate e Serre sono state rilevate dalla Guida-Oggero Commerciale ed Amministrativa della Provincia di Cuneo del 20 febbraio 1909, e probabile quindi che con il tempo potrebbero essere cambiate, perché cambiati i percorsi delle strade.
I “dezenieri o dezene” costituirono per secoli il ministero dei lavoro pubblici di Elva, attivo e insostituibile. I “dezenieri” avevano il compito di fare la manutenzione alle strade che collegavano fra di loro le borgate, il centro del paese e il collegamento con i paesi limitrofi: San Michele, Bellino, Sampeyre, e soprattutto Stroppo (distante circa quattro ore e mezzo di cammino). I “dezenieri” erano nominati ogni anno. La strada per Stroppo, che era l’unico collegamento con il resto del mondo, si cercava di tenerla aperta anche d’inverno pur in mezzo a neve alta e alle valanghe.
L’istituzione delle “dezene” risale all’inizio del 1600 ed erano 17, ma furono sempre 16 fino al 1940-45 corrispondenti alle borgate più popolose di Elva. Ogni “dezena” curava la pulizia e la manutenzione di un tratto di strada.
Gli addetti alle “dezene” dovevano lottare contro le forze della natura, la neve, il freddo, il vento, la bufera che talvolta poteva costringere il paese a vivere isolato per settimane o mesi o a rifare quasi subito il lavoro annullato da un’improvvisa nevicata.
Le “dezene” entravano in azione specialmente in inverno, erano composte da rappresentanti di 10 o più famiglie.
“Ooh1…Ooh!…” era il grido del “dezennario”, responsabile della “dezenna”, che risuonava nelle mattinate freddissime, tra casolari ovattati di neve. Uscivano gli uomini, armati di pala e di piccone ed iniziava la fatica.
Oggi non è possibile immaginare cosa fosse nei tempi passati la neve ad Elva. Già ai Santi
tra le borgate si poteva udire “charamaio” cioè nevica, la coltre bianca che coprirà Elva e i suoi abitanti, tanto da far ai vecchi “Ora l’inverno è il nostro domani e fine ad aprile non metteremo più i piedi per terra”.
Riesce perfino difficile pensare ai due metri di spessore che la neve raggiungeva in talune invernate inclementi, con il paese e le sue borgate isolate tra loro e da Stroppo.
A volte si procedeva allo sgombero della neve per 2 o 3 giorni e poi poteva accadere che la notte seguente sopraggiungesse una nevicata per cui si era di nuovo da capo. Sovente quindi si rimaneva isolati, senza comunicazioni con il resto del mondo e sempre ai “dezenieri” toccava il gravoso lavoro per l’apertura delle strade.
Per secoli il paese di Elva è rimasto chiuso fra le montagne con una popolazione abbastanza stabile, salvo l’emigrazione stagionale.
Si può dire che lo spopolamento ha avuto inizio allorché il paese ha rotto il suo isolamento con la costruzione di alcune strade carrozzabili.
Va ricordato che fine al dopoguerra, l’unico collegamento di Elva con il resto del mondo, era la mulattiera per andare a Stroppo, scollinando i Colli San Giovanni e Bettone con un percorso lungo, faticoso e non privo di pericoli.
Il 21 febbraio del 1763 il consiglio comunale segnala che parecchi sinistri alle persone e bestiame capitavano percorrendo la strada che porta a Stroppo.
Passano ancora molti anni con la speranza che la strada per Stroppo sia migliorata. Nel frattempo si incomincia ad analizzare un percorso alternativo rispetto a quello per Stroppo: si tratta di costruire una strada completamente nuova attraverso il “Vallone della Comba”, con partenza da Grangia Prapiano e arrivo a Ponte Catena, in questo modo la strada si sarebbe accorciata di molti chilometri evitando di salire sui due colli.
Osservando una cartina geografica si nota come Elva comunichi con il corso principale della Val Maira grazie ad un solco netto e profondo, un taglio nord-sud, capace in effetti di ridurre radicalmente le distanze e tempi di percorrenza.
La natura ha però creato il vallone con pareti a picco, un vero “orrido” come è realisticamente chiamato “la Coumbo d’Elvo”, senza camminamenti naturali.
Questo imbuto, autentica gola da Gran Canyon non è coperto da terriccio friabile, ma da dura roccia, formata a stradi sovrapposti che se tagliata ad un certo punto, minacciava di far slittare la parte soprastante e rioccupare così la parte asportata, tanto che chi oggi la percorre seduto comodamente in macchina si sente ancora il sangue gelare per qui massi incombenti.
Per costruire quindi nel vallone, anche un viottolo, sono necessari sbancamenti in roccia viva e addirittura gallerie nei punti più a rischio per le valanghe.
Di fronte a queste difficoltà gli Elvesi non si arrendono così che nel 1838 una delibera comunale anticipa idealmente la realizzazione della “strada del vallone” che si compirà circa un secolo dopo.
Fu fatta una richiesta della nuova strada al Duca Vittorio Emanuele, futuro primo Re d’Italia, quell’anno di passaggio in Paese. Il Duca consiglia di inviare una descrizione dettagliata ed esauriente al Re Carlo Alberto, cosa che fu fatta con dati e disegni. La richiesta si arenò in quanto nella relazione non tutti gli abitanti di Elva erano d’accordo sulla nuova strada in particolare gli abitanti della borgata Gòria.
La premessa per passare dalle parole ai fatti venne dal testamento di Claro Alessandro, oste di Traverse, che nel 1880 lasciava la sua eredità allo scopo (totale L. 15.000), come attesta una lapide in regione Madonnina del Vallone.
Il tragitto da seguire, come è stato già detto, era: partenza da Grangia Prapiano e arrivo a Ponte Catena ove correva la carrozzabile per Acceglio e per Dronero.
Nel 1883, con prestazione gratuita di mano d’opera, fu aperto un sentiero di 1300 metri in regione Proietto.
Nel 1886 alcuni minatori Elvesi sventrarono un tratto di 35 metri di sentiero in piena roccia, denominata “Combale della Rossa”. I minatori lavoravano sospesi con corde nel vuoto, con attrezzi di fortuna ed esplosivo di scarsa potenza.
Altri Elvesi corsero spontaneamente al lavoro tanto da prolungare in un sol giorno il sentiero di ben 600 metri raggiungendo il confine di Stroppo.
Nel 1893 è un sentiero o viottolo.
Nel 1893, dopo 55 anni, il “sentiero o viottolo” finalmente raggiungeva la strada della valle.
Era forse largo un metro, esso correva a zig-zag attraverso alle pareti e lungo i canaloni del vallone, ma pochi avevano il coraggio di affrontarlo, scrive Ettore Dao: “…in diversi tratti bisognava procedere carponi aggrappandosi alle rocce con il pericolo di perdere l’equilibrio e precipitare nel burrone a picco sottostante”.
La strada del vallone fu contrastata da molti, in particolare, come si è detto, dai frazionisti di Gòria che furono sempre contrari: nel 1839 si schierarono contro la supplica al Re Carlo Alberto, nel 1886 al progetto del Generale Bezossi, nel 1892 con una sottoscrizione inviata al Prefetto e nel 1938 quando si trattava di rivolgersi al Duce venuto a Cuneo.
Comunque, pur di risolvere il problema, ancora nel 1923 fu suggerito di realizzare una strada in alternativa che partendo da Bassura, attraverso le varie borgate di Stroppo, borgata S. Martino raggiungesse il colle San Giovanni e infine Elva.
Questo itinerario, avrebbe portato la strada ad una lunghezza di 20 km circa, dovendo superare due colli il Bettone e il San Giovanni con dislivelli di oltre 1000 metri. La strada del vallone era invece di 7 km.
La strada alternativa di 20 km sarebbe costata addirittura più di un eventuale tunnel (lungo km 2,800) che avrebbe collegato Elva (borgata Rossenchie) alla Torretta di Sampeyre.
Dopo aver realizzato il sentiero o viottolo, il comune, nello stesso anno 1893, chiese all’autorità militare di modificare il sentiero in una mulattiera; il ministero della Guerra nel 1895 lavorò per circa sei mesi nel tentativo di trasformare il sentiero. I lavori fatti delusero tutte le aspettative, così mai poté passare un mulo carico.
I lavori furono sospesi e ripresi nel 1919 dal Genio Civile con 850 metri di strada ed una galleria e finiti nel 1922.
A novembre del 1926 fu completato un tratto di un chilometro.
Nel 1934 è una mulattiera.
Si deve comunque arrivare al 1934 per il completamento della “mulattiera”.
Dao Costanzo fu il primo a fare il percorso completo con il mulo carico ben 96 anni dopo la delibera comunale! L’avvenimento fu celebrato.
Ma ben presto si fece strada tra la popolazione la convinzione che una semplice mulattiera non poteva essere sufficiente per i bisogni del paese e quindi bisognava mirare alla realizzazione di una “carrozzabile”.
Nel 1914 viene ultimato il progetto, per una strada “carrozzabile” larga tre metri e mezzo e una lunghezza di circa sette chilometri.
Nel 1919, con l’intervento del Genio Civile e lo stanziamento di L. 387.000, iniziano i lavori con due tronchi, un tratto di 850 metri ed una galleria che finirono nel 1922.
Nel 1925 si pone mano al terzo troncone di un chilometro che è completato a novembre del 1926.
Nel 1929 il governo assegna la somma di un milione di lire per il quarto troncone di carrozzabile, ma la cifra fu spesa per la costruendo strada per Castelmagno e per gli Elvesi fu una beffa.
Nel 1936-1937 vengono stanziate lire 420.000 da sette enti e riprendono i lavori mediante l’opera di due perforatrici, fu sistemato uno dei tratti più disagevoli e più pericoloso del percorso. Però per mancanza di fondi i lavori furono nuovamente sospesi.
Nel 1939 il Duce venne a Cuneo, gli Elvesi ne approfittarono trasmettendo una petizione per la strada. Furono assegnate lire 100.000 e così i lavori ripresero. La guerra, nel 1940, con la Francia impose un nuovo stop ai lavori.
Nel 1948-49 è una carrozzabile.
Come risulta dal libro “Elva un paese che era” di Ettore Dao, verso gli anni 1948-49 la carrozzabile è finalmente ultimata. Da una mia indagine risulta, però, che soltanto nel 1956, la prima automobile arriva ad Elva.
Successivamente Elva ebbe anche nuovi collegamenti con la valli.
Sempre nel 1956, il 15 luglio, veniva aperta una strada carrozzabile dal colle di Sampeyre al capoluogo di Elva che sarà prolungata fino all’Alberg cioè verso Chiosso.
Farà seguito, un’altra carrozzabile, aperta dal comune di Stroppo, che va da Cucchiale a San Martino per congiungersi, attraverso la pineta, con quella da Sampeyre.
Dal colle di Sampeyre si arriva ad Elva passando dal Colle della Cavallina “Vio d’le Cavalines”, così Elva, che per secoli era stata quasi isolata, ebbe finalmente più di un collegamento con il resto del mondo.
Nel 1970 è asfaltata.
Nel 1965 il mantenimento della “strada del vallone” venne assunto dall’Amministrazione Provinciale di Cuneo che negli anni ’70 provvide anche alla asfaltatura, così, finalmente ebbe termine la titanica impresa iniziata nel 1883; il 4 giugno del 1995 su questa strada, nuovamente asfaltata, transiterà addirittura il Giro d’Italia e ci risulta che perfino i “girini” rimasero impressionati per le pareti a picco del percorso.
La durezza del percorso, la bellezza del paesaggio saranno elementi determinanti per far transitare, una seconda volta, il 28 maggio 2003, la “corsa rosa” sulle strade del “vallone”.
Sulle vicissitudini di questa strada, sentiero nel 1893, poi mulattiera e infine carrozzabile nel 1948-‘49 la parte più tragica di essa è scritta nel marmo di una lapide a metà cammino (regione Madonnina o Bars la Pompa) che elenca i nomi di coloro che hanno perso la vita lavorando o passando nel Vallone. Ma non di tutti certamente. Non c’è ad esempio il nome di quella pastorella precipitata nel vuoto nel momento in cui cercava di strappare un ciuffo di erba fresca su uno spuntone di roccia per darlo alle sue caprette e di molti altri.
Gennaro Russo, un turista di Elva
e-mail: gerusso@hotmail.com
Gli appunti, per scrivere “Elva e la sua storia”, li ho tratti dalla seguente bibliografia:
Ringraziamenti:
Una doverosa precisazione, avrei voluto arricchire la prima pagina di questa pubblicazione con il “logo” del Comune di Elva.
La domanda inoltrata, il 7 febbraio 2007, al Commissario Prefettizio ha avuto esito negativo il 15 dello s.m. in quanto mi è stato spiegato, che pur ritenendo apprezzabile l’iniziativa, la concessione del “logo” spetta al Sindaco di Elva, di cui si attende l’elezione.
Per appagare la mia curiosità e credo anche quella del lettore, descrivo il logo che appare sul “portale internet” del Comune di Elva: “è uno scudo a forma quadra, in campo azzurro, con la parte inferiore rotonda e finente a punta, con una mezzaluna crescente, sormontata da tre stelle d’oro male ordinate”.
L’autore:
Gennaro Russo, è nato ad Altavilla Irpina (Avellino) il 7 maggio 1939, diplomato a Benevento come Perito Meccanico Capotecnico, ha lavorato dal 1 ottobre 1962 al 31 maggio 1995 presso lo Stabilimento Michelin di Ronchi (Cuneo). Dal 1996 è Vice Presidente del Michelin Sport Club di Cuneo. Risiede dal 1 giugno 1963 in Via della Battaglia di Madonna dell’Olmo -Cuneo.
La presente opera ed ogni cosa sotto elencata,
è stata realizzata da Gennaro Russo per hobby e non per lucro.
Gennaro Russo, dal 1958 al 1960 è stato corrispondente del “Corriere dello sport di Roma” di Altavilla Irpina (Avellino).
Ha collaborato, dagli anni ‘60 agli anni ‘90, con il settimanale La Guida di Cuneo di cui si ricordano gli articoli:
Dal 2 dicembre 1997 collabora con il settimanale Cuneo-Sette con articoli sportivi, storici e di attualità di cui si ricordano:
“Storia di Cuneo fino al 1801” pubblicata nel settembre 2006 dal Centro Stampa della Provincia di Cuneo in aggiunta alla storia dei Granatieri di Sardegna.
Progetto grafico, impaginazione e stampa del:
Centro Stampa della Provincia di Cuneo
Marzo 2007
Fine
Ultima pagina:
Nella borgata capoluogo
Serre di Elva c’è il
“Museo di Pels”
L’orario di apertura è dalle 9,30 alle 18,00
Info e prenotazioni: Locanda San Pancrazio-Hans Clemer Tel. 0171 997986
E-mail: locandaspancrazio@tiscali.it
Nel museo troverete:
La sala degli attrezzi.
La sala delle parrucche.
La sala didattica.
Potrete, inoltre, assistere ad un film
di Fredo Valla:
“ La strada dei capelli”.
Il 14 maggio 2006 nel paese di Hans Clemer è nato il primo museo dei capelli. Un luogo per scoprire il mestiere dei pelassiers, che portò Elva in giro per il mondo.
Il mestiere itinerante dei “pelassiers” di Elva: dalla raccolta dei capelli in Italia, Francia, Spagna alla preparazione delle “beschas” le ciocche per la creazione delle parrucche con il coinvolgimento di una intera comunità Elvese.
Dagli inizi dei primi decenni del XIX secolo fino alla metà di quello successivo i “pelassiers” contribuirono ad affermare il prodotto italiano nel mondo dando vita a un’epoca di grande lavoro. Da Parigi, capitale indiscussa della moda, a Londra per soddisfare il mercato fiorente dell’aristocrazia dei Lord, gli Elvesi seppero intuire con largo anticipo le enormi possibilità di questo mercato. Con i capelli raccolti e lavorati dai “pelassiers” di Elva i laboratori di confezionamento realizzarono non soltanto le parrucche, ma anche tutti gli accessori richiesti dal mercato per ovviare alla calvizie: toupet, chignon, trecce o allungamenti.
Un vero e proprio artigianato di classe che diffuse il nome di Elva e la fama dei “pelassiers” in tutto il mondo.
Fine
Foto da inserire nel fascicolo
“Elva e la sua storia”
Elenco aggiornato al 10 marzo 07
Cuneo 12 marzo 2007
Preg.mo
Dr. Alessandro Lovera
Provincia di Cuneo
Via XX Settembre 48
12100 Cuneo
Prima di ogni cosa: grazie per come ha accolto il sottoscritto e la Signora Nicoletta Pasero di Elva martedì 6 marzo mattina nel suo ufficio in Provincia.
L’argomento in discussione, come certamente ricorderà, era se dare seguito o meno alla stampa, a cura della Provincia di Cuneo, dell’opuscolo: Elva e la sua storia.
Ricordo che il 31 gennaio 2007, l’Assessore alla Cultura della Provincia di Cuneo, Dr. Ambrogio Invernizzi aveva acconsentito a far stampare 2000 opuscoli di Elva e la sua storia.
Confermo che gli opuscoli sono destinati al Museo dei capelli di Elva.
Mi ha fatto molto piacere che Ella abbia nuovamente approvato l’iniziativa come d’altronde aveva già fatto:
In considerazione di quanto sopra, e a seguito accordi intercorsi martedì 6 marzo 2007, in allegato troverà un CD con tre file:
Il primo file fa anche da “menabò” nel senso che specifica il posto dove inserire le foto.
Allego inoltre quanto ho concordato con il Sig. Marengo, del Vs. centro stampa:
Sarei ben lieto se nell’opuscolo che verrà stampato ci fosse una presentazione Sua o dell’attuale Assessore alla Cultura della Provincia di Cuneo.
Considerando che daremo al Museo dei capelli di Elva 2000 fascicoli, le chiedo se è possibile farne stampare 2300 che provvederò, e provvederemo con le persone che hanno collaborato alla preparazione del fascicolo, a distribuire a giornali, enti culturali e non, ecc..
Cordiali saluti.
Gennaro Russo
Mittente: Russo Gennaro
Via della Battaglia, 58
12100 Cuneo
Tel. 0171 411025
E-Mail gerusso@hotmail.com