A pagina 21 il settimanale Cuneo Sette del 1 maggio 2001 riporta una parte dell’articolo sotto riportato.
La storia di una miniera e del mio bisnonno Gaetano.
Un episodio del lontano 1911
Penso sia più che normale conservare un ricordo piacevole del luogo dove uno è nato e vissuto per tanti anni, specialmente se questo luogo è lontano moltissimi chilometri.
Nel mio caso il ricordo rimane ancora vivo in quanto ogni tre mesi dal mio paese, Altavilla Irpina in provincia di Avellino, mi arriva il giornale “L’Eco di Altavilla”, che mi consente di essere al corrente dei fatti che avvengono nel luogo dove ho trascorso i miei primi vent’anni.
Sul numero di dicembre scorso, a pag.24, c’è una notizia riguardante il mio bisnonno, che riporto: nei pressi del monumento ai caduti della miniera di zolfo è stata collocata una targa ricordo con i nomi di tutti i caduti della miniera tra cui figura appunto anche il mio bisnonno.
La notizia mi ha condotto sul “filo dei ricordi” e mi ha dato lo spunto per raccontare la vicenda eroica del mio bisavolo Gaetano.
Prima di inoltrarmi in questa storia credo sia doveroso segnalare la zona d’Italia dove si trova il mio paese, descrivere come fu scoperta la miniera di zolfo e come veniva estratto questo minerale.
Altavilla Irpina è di origine Normanna, ha attualmente circa 5000 abitanti, dista da Avellino km 16,6, da Benevento km 16, da Napoli km 76, da Salerno km 52,8 e da Caserta km 52.
La scoperta della miniera fu del tutto casuale. Era l’anno 1862, due pastori, sorpresi dalla pioggia, accesero un fuoco nel fondo della contrada Vignale di Altavilla situata nelle vicinanze del paese confinante Tufo (gli enologi ricordano questo paese per la produzione del famoso vino “Greco di Tufo”), a contatto col fuoco alcuni massi si fusero, emettendo il caratteristico odore di zolfo. Non passò molto tempo che si scoprì che in quella zona a 200 metri dal fiume si trovava un giacimento di zolfo.
Nel novembre dell’anno seguente il proprietario dei terreni, Ferdinando Capone, insieme al giovane figlio Federico (un personaggio leggendario del mio paese, un Garibaldino che aveva combattuto a Mentana nel 1867, deputato per due legislature (1882-1893) e pioniere dei primi voli aerei, studiò, costruì e brevettò 7 prototipi di mezzi per il volo, molto amico di Giuseppe Garibaldi tanto da regalare all’eroe dei due mondi già nel 1871 per le sue vigne di Caprera lo zolfo di Altavilla Irpina), decidono, dopo una serie di pazienti ricerche e di ripetuti tentativi, servendosi di tutti i mezzi che la tecnica di quel periodo suggeriva, di dare inizio agli scavi e quindi alle attività assumendo tra il personale i pescatori che vivevano nelle misere capanne sulle rive del fiume. Col passare degli anni il numero di persone occupate nell’attività estrattiva e di lavorazione dello zolfo aumentò fino ad un numero di 800 dipendenti, toccò punte di 900 operai durante “il ventennio” su una popolazione a quel tempo di 7500 abitanti. La produzione annua complessiva era di circa 50 mila tonnellate pari al 3% di quella mondiale.
Accanto al minatore addetto al tracciamento ed all’escavazione delle gallerie c’era l’armatore che le rendeva sicure ed operative. L’armatore come il minatore lavorava in coppia.
Si lavorava alla luce del “lume al carburo di calce”, praticamente nudi per il gran caldo e la notevole umidità, i livelli di estrazione erano 9 e si arrivava fino ad una profondità di 500 metri .
L’estrazione dello zolfo avveniva in varie fasi: la prima era costituita dall’esplosione, la seconda dall’abbattimento dello zolfo e la terza, la più pericolosa, dall’assicurazione della volta e delle pareti.
Poi il materiale sulfureo veniva trasportato all’esterno della miniera e destinato alle varie lavorazioni industriali.
È interessante notare che tra il personale c’erano anche delle donne addette, per lo più, all’insaccamento dello zolfo. Nel 1918 la loro paga giornaliera ammontava a 95 centesimi, nel 1945 a lire 68,80; nel 1956 a lire 739,68.
Poderosi cavalli, che vivevano quasi sempre nelle gallerie, erano addetti al traino dei carrelli vuoti e pieni, questi arrivano in superficie tramite un ascensore inclinato, quindi non verticale come nelle miniere di carbone, si lavorava a cottimo e ancora adesso ricordo che ogni squadra doveva estrarre 13 carrelli al giorno di zolfo.
Dalla descrizione che ho fatto risulta più che evidente quanto era pericoloso il lavoro nella miniera.
In uno dei tanti incidenti mortali, ed erano purtroppo frequenti, il mio bisnonno trovò appunto la morte nel modo che adesso vado a raccontare.
Gaetano, padre di Laura, la mia nonna paterna, era nato in Abruzzo, nel paese di Taranta Peligna (un piccolo centro di circa 1000 abitanti, situato alle pendici della Maiella, in provincia di Chieti, nei pressi del ben più noto Fara San Martino, dove si produce la pasta De Cecco), arrivò ad Altavilla, chiamato dalla Direzione della miniera, come esperto minatore .
Una sua intuizione consentì di scoprire una nuova galleria di zolfo. Come Caporale, cioè Capo Squadra, perì in miniera nel 1911, dopo aver salvato undici operai da morte certa. Nella miniera ci fu un’esplosione che determinò lo sprigionarsi di gas venefici (la cosiddetta “mufega” o “mufeca”). Il mio bisnonno si adoperò per portare in salvo i suoi operai, dando ordine che, se non fosse più riuscito a tornare indietro, la galleria avrebbe dovuto essere murata, cosa che fu fatta dopo il salvataggio dell’undicesimo operaio, perché solo in questo modo, con l’assenza di ossigeno, si sarebbe potuto spegnere lo zolfo che bruciava.
Il corpo dell’eroico Gaetano, come quello di altri, fu recuperato dopo molti giorni, quando si immaginava che il fuoco fosse oramai spento. Gaetano fu trovato seduto su una pietra, con il capo appoggiato sulle mani.
Ricordo che, fino a non molti anni orsono, una lapide collocata sul muro perimetrale sinistro del cimitero del mio paese ricordava in sintesi quanto ho descritto .
La figlia Laura, cioè mia Nonna, con le 300 lire di risarcimento (attualizzate corrisponderebbero a lire 1.724.544) che ebbe dalla direzione della miniera, comprò, il 15 gennaio 1913, 560 m2 di terreno nella zona retrostante la casa di abitazione .
Questa storia, che è nella mia memoria da sempre, mi è stata confermata dalle mie tre sorelle e da mio fratello e infine, nei giorni scorsi, da mia Zia ottantenne Luisa Russo, la più anziana della famiglia e che tuttora vive a Milano. La zia è figlia di mia nonna Laura.
La miniera dopo quasi un secolo di attività inizia il suo declino nel 1960, il 19 ottobre l’alluvione che investì il paese distrusse molti impianti e macchinari, la furia delle acque trascinò fino a Benevento a 16 km il prodotto finito dello zolfo, i cosiddetti ”pani” . Da quel momento, col passare degli anni, la miniera diventò sempre meno operativa.
Con la cessazione dell’attività mineraria anche la popolazione del paese diminuì, fino a stabilizzarsi attorno ai 5000 abitanti odierni. Molti emigrarono, tanto che vicino Adelaide in Australia si è formata una numerosa comunità di Altavillesi e recentemente c’è stato addirittura il gemellaggio tra i due paesi con lo scambio di visite dei 2 sindaci.
I motivi che hanno generato la fine della miniera di Altavilla e di tutte le miniere di zolfo italiane li avevo già intuiti, durante le lezioni di chimica all’Istituto Tecnico Industriale di Benevento, la scuola che frequentavo e per motivi affettivi verso il mio paese natio li ricordo quasi a memoria e sono questi:
A metà degli anni ’50 si prevedeva già la crisi irreversibile delle miniere di zolfo italiane in quanto il metodo di estrazione realizzato dagli americani era decisamente più economico, si tratta del metodo Frasch adottato in Louisiana e nel Texas.
Tale procedimento, come è noto, consiste nel perforare il terreno, introducendovi delle trivelle costituite da tre tubi concentrici, fino a raggiungere il giacimento solfifero. Nel tubo esterno si introduce acqua surriscaldata a 165° C e a 18 atm., che fa fondere lo zolfo con cui viene a contatto, mentre dal tubo centrale si inietta aria compressa a 35 atm. in modo da provocare la risalita dello zolfo fuso attraverso l’intercapedine centrale.
L’emulsione acquosa che viene in superficie è raccolta in grande vasche rivestite di legno e lasciata raffreddare; l’acqua si separa dallo zolfo allo stato solido e già abbastanza puro da poter essere direttamente usato per la maggior parte dei suoi impieghi.
Quindi niente gallerie e niente di niente mentre la miniera di Altavilla poteva soltanto utilizzare i forni Gill con a monte un grande lavoro, carico di rischi, per i minatori.
In tante miniere siciliane lo zolfo veniva invece estratto col metodo dei Calcaroni, costituiti da cumuli di minerale disposti su un piano inclinato di materiale roccioso o di cemento.
Lo zolfo veniva incendiato ed una parte di esso, pari al 30/50%, bruciava fornendo il calore che portava a fusione la rimanente parte di zolfo: questa colava lungo il piano inclinato in appositi recipienti di raccolta. Questo metodo era altamente inquinante per l’atmosfera in quanto liberava la micidiale anidride solforosa; fu abbandonato e dette spazio all’uso dei forni Gill usati appunto anche nella miniera di Altavilla.
La resa dei forni Gill era notevolmente superiore ai Calcaroni in quanto, attraverso un opportuno sistema per il recupero del calore, diminuiva la quantità di zolfo utilizzata come combustibile e consentiva di recuperare in media il 75% dello zolfo contenuto nel minerale.
Lo zolfo è usato nelle fabbriche di pneumatici, per la vulcanizzazione della gomma, dall’industria chimica per la produzione dei suoi composti, tra cui soprattutto l’acido solforico, l’anidride solforosa, solfiti, solfuro di carbonio ecc..
Quantità minori ma pur sempre elevate vengono poi assorbite dall’uso agricolo, in particolare in viticoltura contro lo iodio e per la produzione dei coloranti allo zolfo.
Ricordo ancora di avere visto, all’inizio anni ’60, sacchi di zolfo con la scritta “SAIM Altavilla Irpina” nelle vigne di Cengio (provincia di Savona) e nelle Langhe (provincia di Cuneo).
Lo zolfo, con il salnitro ed il carbone, è indispensabile per la produzione della polvere pirica.
Qui finisce la storia del mio eroico bisnonno Gaetano e della Sua miniera la quale, ormai, è soltanto un interessante esempio di archeologia industriale.
Gennaro Russo